Il mattino ha l’oro in bocca, dicono. Poi ci sono mattine che hanno in bocca il sapore metallico di birra scadente e patatine San Carlo. Ripenso a quello che è successo ieri sera, al fatto che non sarei dovuto essere in quel cinema con lei, eppure è capitato. Il film non era male. A me è piaciuto ma a lei no. I dialoghi erano belli stronzi e tutti finiscono per morire male e l’unico che resta in vita dovrà fare per sempre i conti col rimorso di aver mandato la donna che amava a far da colazione ai gabbiani delle discariche. Doveva essere una seratina tranquilla.
Dopo il cinema andiamo in un posto lì vicino. Vedo la faccia della barista quando entro. Da dietro il bancone sembra dire «Ehi, ma cosa cazzo stai combinando? Chi è quella?» Io, col mio miglior sorriso coglione vorrei risponderle «Guarda, non è come pensi, c’è tutta una storia che ora non posso spiegarti, sono qui per aggiustare cose, per aggiustare me stesso, ti prego, non giudicarmi male». Le dico solo ciao.
Il locale è pieno. Prima di noi entra quel giornalista famoso, quello della televisione, quello che una volta era un compagno, un comunista, e ora è solo un grasso e viscido vecchio coi soldi. La cameriera ci trova un tavolo. Lui aspetta in piedi. Una piccola rivincita per la classe operaia.
L’ultima volta che siamo stati insieme in questo posto è stato molto tempo fa. Lei è seduta che può guardare la gente del locale. Io le sono di fronte, stretto su un tavolino tondo per due. Ordiniamo da bere e anche qualcosa da mangiare. Parliamo del film, di come sia stato tradotto male il titolo, degli altri film che abbiamo visto, di quanto sia bella lei, nonostante la stanchezza di una dura settimana di lavoro, della mia barba che è della lunghezza giusta ma che per piacerle dovrebbe essere come quella di un motociclista malavitoso morto in prigione con la testa scoppiata da una spranga di ferro. Ci posso provare, dico.
«Perché mi piaci ancora così tanto?» le chiedo.
«Perché non puoi avermi», mi dice.
Più che una risposta, a me sembra una promessa.
«Quando mi avevi non ti piacevo, mentre ora è troppo tardi», chiosa.
Per un attimo mi sembra di essere tornato al cinema, ingarbugliato in un dialogo di quelli stronzi come piace a me. In giro, però, non vedo nessuna brutta faccia dei cartelli messicani della droga che vogliono farmi fuori. Poteva essere una soluzione.
Lei sbadiglia più volte, sembra annoiarsi, io vorrei puntarle gli occhi negli occhi, come fossero spilli sull’addome di una farfalla in una teca, per catturarla, per tenerla lì, ferma per sempre nel momento del suo massimo splendore, memore di aver posato le zampe su fiori colorati sbattuti dal vento, o di aver volteggiato tra le foglie degli alberi in un bosco fresco o aver incontrato il sorriso e la smania di un bambino in un prato.
Poi ricordo che a me piacciono le falene, e tutto è diventato improvvisamente troppo.
(foto di Katie Tegtmeyer)